Partirò subito col dire che Un mondo sinistro non è un libro facile. Più che un romanzo sembra una trappola, un tortuoso labirinto accidentato di parole e immagini in cui l’autore intrappola il lettore, sfidandolo a uscirne. Dipanare la matassa non è facile, anzitutto perchè la scrittura di Nabokov è qui volutamente contorta, straniante, involuta, claudicante. Non sempre, ma dove e quanto basta per trascinare il lettore nel vortice sinistro e grottesco nel quale il protagonista e il suo mondo sono precipitati: una dimensione allucinata e distorta, ma reale.
Non è facile, in secondo luogo, perchè i riferimenti – letterari e non – disseminati per tutto il libro non sono sempre immediati e richiedono spesso uno sforzo in più da parte di chi legge.
L’azione si svolge in un non ben precisato periodo, in un non ben precisato paese dell’Europa dell’est, i cui abitanti parlano ora russo, ora tedesco, ora una nè l’uno nè l’altro. L’unica cosa certa è che si è appena conclusa una rivoluzione che ha rovesciato il potere costituito e ha imposto la dittatura cosiddetta “ekwilista”, ovvero “dell’uomo comune”.
Alla base della dottrina ekwilista, l’idea – mutuata e distorta dall’ultimo, delirante libro di un vecchio filosofo in fin di vita – secondo cui la coscienza umana è una, ed è la sua non equilibrata distribuzione fra gi uomini a generare disuguaglianza nel mondo. Tutti gli uomini, per essere uguali, devono dunque essere uguali: non eccellere, non svilirsi, non distinguersi, non isolarsi: vivere e agire in modo uniforme e conforme al modello stabilito dallo stato, bene supremo e garante di equità.
Il protagonista del libro, il filosofo di fama intrnazionale Adam Krug, nel momento in cui il nuovo regime si insedia, ha appena perso la moglie Olga e si è ritrovato solo con un figlio piccolo, David.
Unica celebrità della neonata dittatura, nonchè ex compagno di scuola di Paduk, novello dittatore e fondatore del partito, Krug si trova improvvisamente a dover elaborare e gestire un lutto gravissimo sotto le pressioni del nuovo governo, da una parte, e dei suoi colleghi intellettuali, dall’altra. Questi ultimi vorrebbero sfruttare il rapporto personale di Krug con Paduk per salvarsi dalla repressione, e il primo vorrebbe asservirlo alla causa ekwilista e sfruttare la sua fama a beneficio del nuovo stato.
Krug, da parte sua, si mostra ugualmente ostile all’una e all’altra parte, annichilito dal dolore e ormai del tutto indifferente alle sorti del mondo, così come alla propria.
Sebbene consapevole di dover sopravvivere per il bene del figlio e intenzionato, almeno in un primo momento, a salvare i propri amici dalle rappresaglie del governo, Krug è ben lontano dalla figura dell’intellettuale oppresso che lotta per la propria libertà o per quella dell’intelligencija. Non gli importa della situazione del paese, del fatto di poter o meno lavorare in futuro, e non parteggia per nessuno.
Allo stesso modo, è Nabokov stesso a non salvare nessuno: così come impietoso è il ritratto che fa di Paduk e del suo entourage, altrettanto ridicoli sono gli accademici colleghi di Krug, piccoli e meschini, pronti a svendere se stessi e chiunque altro sia necessario pur di sopravvivere.
Cercando di schivare spie del governo ed ex allievi, scollato dalla dimensione pubblica e persino dal proprio lavoro – svuotato di qualsiasi significato – Krug cerca di di mantenersi in vita in quella bolla di dolore sordo nel quale la morte della moglie lo ha gettato, una bolla contro la quale le voci dell’esterno giungono ovattate, rimbalzando altrove. Solo l’amore per il figlio, dopo l’iniziale illusione di una possibile, quieta convivenza con il neonato regime, lo scuoterà dal torpore e lo spingerà a cercare una tardiva via di fuga.
La narrazione lineare – per così dire – della trama si diluisce, improvvisamente, in scene oniriche in cui i ricordi di Krug si mescolano alle mistificazioni del sogno – emblematica e splendida, in questo senso, la scena del sogno scolastico – . La filosofia, la letteratura e tutto il mondo intellettuale di Krug si riflettono nello specchio deformante della mente, e ci vengono restituiti dalla penna di Nabokov sotto forma di allucinazioni che irrompono improvvisamente, nel bel mezzo del racconto, spiazzando e disorientando.
L’autore, dal canto suo, non si nasconde, ma è lì, fra le pagine, e come detto, sfida il lettore a decifrare la pièce che sta dirigendo, disseminando simboli, richiami, indizi, dubbi, in un gioco letterario e linguistico che mette continuamente in luce l’artificio della narrazione – o della messa in scena -.
“Col che, naturalmente, si concluse l’incontro. Così? O forse in un altro modo? Krug aveva davvero dato una scorsa al discorso già preparato? E, in tal caso, il discorso era davvero così stupido? […] Lo scoraggiato tiranno, o Presidente dello stato, o dittatore, o chiunque fosse […] porse effettivamente al mio personaggio prediletto una misteriosa manciata di fogli dattiloscritti con cura.”
Un mondo sinistro, affine per temi e stile a un’altra opera di Nabokov, Invito a una decapitazione, si può definire un romanzo distopico, ma lo è in un modo tutto suo.
Entrambi i romanzi raccontano di surreali e ottusi regimi dittatoriali dai quali i protagonisti si ritrovano, loro malgrado, inevitabilmente schiacciati, ma è l’angoscia individuale a prevalere su quella collettiva. I demoni e gli incubi che perseguitano i personaggi non sono altro che i loro demoni e i loro incubi, non vengono dall’esterno, non sono conseguenze della situazione politica.
Come afferma lo stesso Nabokov nell’introduzione a Un mondo sinistro:
“Non mi ha mai interessato la cosiddetta letteratura di carattere sociale (in gergo giornalistico e commerciale: “libri importanti”). Non sono “sincero”, non sono “provocatorio”, non sono “satirico”. Non sono scrittore didascalico né allegorico. La politica e l’economia, le bombe atomiche, le espressioni d’arte primitiva e astratta, l’intero Oriente, accenni di “disgelo” nella Russia sovietica, il Futuro dell’Umanità, e così via, mi lasciano supremamente indifferente.”
All’autore non interessa ribaltare in chiave distopica la realtà sociale sovietica – per citare quella a lui più vicina – e, nonostante sia quasi inevitabile, leggendo, cogliere affinità fra il regime fittizio di Paduk e quello reale di Stalin – la capitale dello stato ribattezzata Padukgrad ne l’esempio più elementare – è il dramma unico e personale di Krug a costituire il fulcro del romanzo. Il grande intellettuale – la cui grandezza vorrebbe essere livellata e unifirmata a un’ipotetica “media” da un oscuro regime farsesco – che di fronte alla più comune delle tragedie umane – la morte – si scopre inutile e incapace di reagire. Nè l’intelligenza, nè il lavoro, nè il proprio smisurato ego hanno più senso nel vuoto sconcertante lasciato dalla perdita, e ancor meno ne ha la vita stessa, quando anche l’ultimo appiglio a essa sparisce nel buio.
Piccolo avviso: nel caso in cui, leggendo il libro, vi venissero in mente paragoni con Kafka o peggio, con Orwell, sappiate che Nabokov si rivolterebbe nella tomba.